IL VIAGGIO

 

Raggomitolata nella sua tana nella stiva, Eliza iniziò lentamente a morire. Al buio e alla sensazione di essere murata viva si sommava il lezzo, un miscuglio tra l'odore del contenuto dei pacchi e delle casse e quello del pesce salato in barile e delle remote marine incrostate sul legno dell'imbarcazione. Il suo buon olfatto, così utile per aggirarsi nel mondo a occhi chiusi, si era trasformato in uno strumento di tortura. L'unica compagnia era quella di uno strano gatto a tre colori, sepolto come lei nella stiva per proteggerla dai topi. Tao Chi'en le aveva assicurato che si sarebbe abituata al tanfo e alla reclusione, perché in caso di necessità il corpo si abitua praticamente a tutto, e aveva aggiunto che il viaggio sarebbe stato lungo e che non avrebbe mai potuto affacciarsi all'aria aperta e che quindi tanto valeva non pensarci, se non voleva impazzire. Avrebbe avuto acqua e cibo, le promise che si sarebbe incaricato lui di portarli tutte le volte che scendere nella stiva non avesse destato sospetti. Il brigantino era piccolo ma zeppo di gente e non sarebbe stato difficile inventarsi qualche pretesto per svignarsela.

"Grazie, quando saremo arrivati in California le darò la spilla con i turchesi."

"La tenga da parte, mi ha già pagato. Ne avrà bisogno. Ma cosa ci va a fare in California?"

"Vado a sposarmi. Il mio fidanzato si chiama Joaquin. La febbre dell'oro l'ha colpito e se n'è andato. Mi ha detto che sarebbe tornato, ma non posso aspettarlo."

Appena la nave abbandonò la baia di Valparaìso e si trovò in alto mare, Eliza iniziò a delirare. Per ore rimase sdraiata al buio come un animale nel suo stesso sudiciume, stando così male da non riuscire a ricordare dove si trovasse né perché, fino a quando la porta della stiva si aprì e apparve Tao Chi'en, illuminato da un pezzo di candela, per portarle un piatto di cibo. Gli bastò darle un'occhiata per rendersi conto che la ragazza non sarebbe riuscita a ingoiare niente. Diede la cena al gatto, andò a cercare un secchio d'acqua e tornò per lavarla. Prima le diede un forte infuso di zenzero e poi le applicò una dozzina dei suoi aghi d'oro fino a quando lo stomaco non si fu calmato. Eliza non ebbe modo di rendersi conto che Tao Chi'en l'aveva denudata completamente, lavata dolcemente con acqua di mare e massaggiata dalla testa ai piedi con lo stesso balsamo raccomandato per i tremori da malaria. Poco dopo stava dormendo, avvolta nella sua coperta castigliana con il gatto ai piedi, mentre Tao Chi'en, in coperta, sciacquava i suoi vestiti in mare, attento a non richiamare l'attenzione dei marinai che, comunque, a quell'ora riposavano. Diversamente da quanti provenivano dai tre mesi di navigazione dall'Europa e avevano già superato la prova, tutti i passeggeri imbarcatisi da poco soffrivano di mal di mare come Eliza.

Nei giorni successivi, mentre i nuovi passeggeri dell'Emilia si abituavano agli scossoni delle onde e si adattavano al tran tran che avrebbe caratterizzato tutta la traversata, nel fondo della stiva Eliza si ammalava sempre di più. Tao Chi'en scendeva tutte le volte che poteva per darle dell'acqua e per cercare di debellare la nausea, ma con stupore verificava che, invece di diminuire, il malessere aumentava. Cercò di curarla con i metodi tradizionali cui ricorreva in casi simili e con altri che improvvisò alla disperata, ma Eliza non riusciva a trattenere quasi nulla nello stomaco e si stava disidratando. Le preparava acqua con sale e zucchero e gliela somministrava a cucchiaiate con infinita pazienza, ma trascorsero due settimane senza che si potesse apprezzare alcun miglioramento e arrivò un momento in cui la pelle della ragazza sembrava pergamena e lei non riuscì più a sollevarsi per fare gli esercizi che Tao le imponeva. "Se non ti muovi, il corpo si intorpidisce e le idee si offuscano," le ripeteva. Il brigantino toccò i porti di Coquimbo, Caldera, Antofagasta, Iquique e Arica e in tutte le brevi soste cercò di convincerla a sbarcare e a trovare la maniera di tornare a casa, perché vedeva che si stava progressivamente debilitando ed era spaventato.

Si erano appena lasciati alle spalle il porto di Callao, quando la salute di Ehza subì un tracollo inevitabile. Tao Chi'en si era procurato al mercato una provvista di foglie di coca, le cui proprietà medicinali conosceva bene, e tre galline vive che pensava di tenere nascoste e di sacrificare a una a una, dato che la malata aveva bisogno di alimenti più sostanziosi delle magre razioni previste. Cucinò la prima in un brodo di zenzero fresco e scese con l'intenzione di dare a Eliza la zuppa, anche a forza. Accese una lanterna di sebo di balena, si fece strada tra le merci e si avvicinò alla topaia in cui si trovava la ragazza, che stava a occhi chiusi e sembrava non accorgersi della sua presenza. Sotto il suo corpo si estendeva una vasta macchia di sangue. Lo zhong yi lanciò un grido e si chinò su di lei, sospettando che la povera disgraziata avesse trovato la maniera di suicidarsi. Non poteva biasimarla, in simili condizioni lui avrebbe fatto la stessa cosa, pensò. Le sollevò la camicia, ma non c'era nessuna ferita visibile e toccandola si rese conto che era ancora viva. La scosse fino a quando non apri gli occhi.

"Sono incinta," ammise lei, alla fine, con un fil di voce.

Tao Chi'en si prese la testa tra le mani e si perse in una litania di querimonie nel dialetto del suo villaggio natale cui non faceva ricorso da quindici anni: se l'avesse saputo non l'avrebbe mai aiutata, come poteva esserle venuto in mente di imbarcarsi per la California in stato interessante, era pazza, ecco cosa ci mancava, un aborto, se moriva lui era perduto, bel pasticcio quello in cui l'aveva messo, che stupido, gli stava bene, come aveva fatto a non intuire il perché di tutta quella fretta di scappare dal Cile... Aggiunse imprecazioni e maledizioni in inglese, ma lei era svenuta di nuovo ed era al riparo da qualsiasi rimprovero. La prese tra le braccia e la cullò come un neonato, mentre la rabbia iniziava a trasformarsi in smisurata compassione. Per un attimo gli balenò l'idea di rivolgersi al capitano Katz e di confessargli tutta la storia, ma la reazione di questi era imprevedibile. Quell'olandese luterano, che trattava le donne a bordo come appestate, si sarebbe infuriato se avesse saputo che ne trasportava un'altra, nascosta e oltretutto incinta e moribonda. E a lui quale castigo avrebbe riservato? No, non poteva dirlo a nessuno. L'unica alternativa era attendere che Eliza si spegnesse, se questo era il suo karma, e poi gettare il suo corpo in mare insieme alla spazzatura della cucina. L'unica cosa che poteva fare per lei, in caso l'avesse vista soffrire troppo, era aiutarla a morire con dignità.

Si stava dirigendo verso l'uscita quando, di pelle, avvertì una presenza estranea. Spaventato, sollevò la lanterna e vide con perfetta chiarezza nel cerchio tremulo della luce la sua adorata Lin che lo osservava da vicino con quell'espressione scherzosa sul viso trasparente che costituiva il suo maggiore incanto. Indossava il vestito di seta verde ricamato con fili dorati, quello delle grandi occasioni, i capelli raccolti in un semplice chignon trattenuto da bastoncini d'avorio e due peonie fresche sulle orecchie. Così l'aveva vista l'ultima volta, quando le vicine l'avevano vestita per la cerimonia funebre. L'apparizione della sposa nella stiva fu talmente reale che il panico lo colse: gli spiriti, per quanto fossero stati buoni in vita, in genere con i mortali si comportavano crudelmente. Cercò di scappare verso la porta, ma lei gli sbarrò il passo. Tao Chi'en cadde in ginocchio, tremando, senza abbandonare la lanterna, il suo unico appiglio alla realtà. Accennò una preghiera per esorcizzare i demoni, nell'eventualità che avessero assunto la forma di Lin per confonderlo, ma non riuscì a ricordare le parole e dalle sue labbra uscì solamente un lungo lamento d'amore rivolto a lei e di nostalgia per il passato. Allora Lin con la sua indimenticabile tenerezza si chinò su di lui, avvicinandosi tanto che se Tao avesse osato avrebbe potuto baciarla, e gli sussurrò che non era venuta da così lontano per spaventarlo, ma per ricordargli i doveri di un medico rispettabile. Come Eliza, anche lei era stata sul punto di dissanguarsi dopo aver dato alla luce la sua bambina e in quell'occasione lui era stato capace di salvarla. Perché non faceva la stessa cosa per quella ragazza? Cosa stava succedendo al suo amato Tao? Aveva forse perso il suo buon cuore e si era trasformato in uno scarafaggio? La morte prematura non era il karma di Eliza, gli assicurò. Se una donna è disposta ad attraversare il mondo sepolta in un buco infernale pur di ritrovare il suo uomo, è solo perché ha molto qi.

"La devi aiutare, Tao, se muore senza aver rivisto il suo amato non avrà mai pace e il suo fantasma ti perseguiterà pesempre," lo ammonì Lin prima di dissolversi.

"Aspetta!" supplicò l'uomo allungando una mano per trattenerla, ma le sue dita si chiusero nel vuoto.

   Tao Chi'en rimase a lungo prostrato a terra, cercando di recuperare il senno, fino a quando il suo cuore sconvolto smise di galoppare e il tenue aroma di Lin si fu dissipato nella cantina. "Non andartene, non andartene," ripeté mille volte, in preda all'amore. Alla fine riuscì a rimettersi in piedi, ad aprire la porta e a uscire all'aria aperta.

Era una notte tiepida. L'Oceano Pacifico splendeva come argento sotto i riflessi della luna e una brezza leggera gonfiava le vecchie vele dell'Emilia. Molti passeggeri si erano già ritirati o giocavano a carte nelle cabine, alcuni per passare la notte avevano appeso le loro amache tra il disordine delle macchine, i finimenti dei cavalli e le casse che riempivano la coperta, mentre altri si intrattenevano, a poppa, nella contemplazione dei delfini che giocherellavano nella scia di spuma della nave. Tao Chi'en alzò gli occhi verso l'immensa volta celeste con gratitudine. Per la prima volta dalla sua morte, Lin l'aveva visitato senza ritrosia. Prima di intraprendere la vita da marinaio, l'aveva sentita vicina in varie occasioni, soprattutto quando sprofondava in meditazione, ma in quei momenti era facile confondere la debole presenza del suo spirito con la nostalgia di vedovo. Lin era solita passargli di fianco sfiorandolo con le sue dita sottili, ma a lui rimaneva il dubbio se fosse davvero lei e non un'invenzione della sua anima tormentata. Pochi minuti prima, invece, nella stiva, non aveva avuto dubbi: il viso di Lin gli era apparso raggiante e preciso come quella luna sul mare. Si sentì accompagnato e felice, come nelle notti del passato quando lei dormiva accoccolata fra le sue braccia dopo aver fatto l'amore.

Tao Chi'en si diresse verso il dormitorio dell'equipaggio, dove disponeva di un'angusta cuccetta di legno, lontana dal giro d'aria che si infiltrava dalla porta. Era impossibile dormire in quell'aria rarefatta e pestilenziale, ma dalla partenza da Valparaìso non aveva mai dovuto farlo perché il clima estivo permetteva di sdraiarsi a terra in coperta. Cercò il baule che aveva inchiodato a terra per proteggerlo dai colpi delle onde, si tolse la chiave dal collo, aprì il lucchetto ed estrasse la valigetta e un'ampolla di laudano. Poi sottrasse con cautela una doppia razione d'acqua dolce e in cucina cercò degli stracci, che in mancanza di meglio sarebbero tornati utili.

Stava tornando verso la stiva quando una mano si posò sul suo braccio. Si girò sorpreso e vide una delle cilene che, sfidando l'ordine perentorio del capitano di non farsi vedere dopo il tramonto, era uscita per sedurre qualche cliente. La riconobbe immediatamente. Di tutte le donne a bordo, Azucena Placeres era la più simpatica e la più coraggiosa. Durante i primi giorni era stata l'unica disposta ad aiutare i passeggeri in preda al mal di mare e si era anche occupata con dedizione di un marinaio che, cadendo dall'albero, si era rotto un braccio. In questo modo si era guadagnata perfino il rispetto del severo capitano Katz, che da allora aveva chiuso un occhio sulla sua indisciplina. I servizi di infermiera Azucena li prestava gratuitamente, ma chi osava mettere una mano sulle sue carni sode doveva pagare in denaro contante e sonante, perché il buon cuore non andava confuso con la stupidità, diceva. "Questo è il mio unico capitale e se non ne ho rispetto sono fregata," spiegava dandosi allegre manate sulle natiche. Azucena Placeres si rivolse a lui con quattro parole comprensibili in qualsiasi lingua: cioccolato, caffè, tabacco, brandy. Come faceva tutte le volte che si imbatteva in Tao, gli spiegò con gesti arditi il suo desiderio di barattare uno qualsiasi di quei lussi con i suoi favori, ma lo zhong yi si liberò di lei con uno spintone e tirò dritto per la sua strada.

 

 

Tao Chi'en trascorse buona parte della notte vicino alla febbricitante Eliza. Lavorò su quel corpo esausto con i limitati strumenti della sua valigetta, la sua lunga esperienza e una titubante tenerezza fino a quando lei espulse un mollusco sanguinolento. Tao Chi'en lo esaminò alla luce della lanterna e riuscì a determinare con certezza che si trattava di un feto di diverse settimane e che era completo. Per pulire completamente il ventre collocò i suoi aghi nelle braccia e nelle gambe della giovane, provocandole forti contrazioni. Quando fu sicuro del risultato respirò sollevato: rimaneva solo da chiedere l'intervento di Lin per evitare un'infezione. Fino a quella notte per lui Eliza rappresentava semplicemente un accordo commerciale e in fondo al suo baule c'era la collana di perle a testimoniarlo. Era solo una ragazza sconosciuta per la quale non pensava di nutrire alcun interesse personale, una fan güey dai piedi grandi e dal temperamento agguerrito cui sarebbe costato parecchio trovarsi un marito, dal momento che non mostrava desiderio di piacere né alcuna inclinazione per servire un uomo, questo era evidente. Adesso che era rovinata da un aborto, non si sarebbe mai più sposata. Nemmeno l'amante, che tra l'altro l'aveva già abbandonata una volta, l'avrebbe desiderata come sposa, nel caso improbabile che un giorno fosse riuscita a trovarlo. Ammetteva che, per essere una straniera, Eliza non era del tutto brutta; perlomeno c'era un lieve sapore orientale nei suoi occhi allungati e i suoi capelli erano lunghi, neri e lucidi come la coda orgogliosa di un cavallo imperiale. Se avesse avuto una diabolica capigliatura gialla o rossa, come le tante che aveva visto da quando aveva abbandonato la Cina, forse non le si sarebbe nemmeno avvicinato; ma né il suo discreto aspetto né la sua determinazione l'avrebbero aiutata, il suo destino era segnato, non c'erano speranze per lei: in California sarebbe finita a fare la prostituta. Aveva frequentato molte di queste donne a Canton e a Hong Kong. Doveva gran parte del suo sapere medico agli anni di pratica sui corpi di quelle sventurate devastati da botte, malattie e droghe. Diverse volte nel corso di quella lunga notte pensò che, malgrado le istruzioni di Lin, forse sarebbe stato più nobile lasciarla morire salvandola così da un orribile destino, ma era stato pagato in anticipo, si disse, e doveva rispettare il contratto. No, questa non era l'unica ragione, ammise, visto che sin dall'inizio aveva messo in discussione i motivi che lo inducevano a imbarcare clandestinamente sulla nave quella ragazza. Il rischio era incalcolabile e non era sicuro di aver commesso una simile imprudenza solamente per il valore delle perle. Qualcosa nella coraggiosa determinazione di Eliza lo aveva commosso, qualcosa nella fragilità del suo corpo e nel selvaggio amore che professava per l'amante gli ricordava Lin...

All'alba, finalmente, Eliza smise di sanguinare. La febbre era altissima e la ragazza tremava nonostante il caldo insopportabile della stiva, ma i battiti del polso erano migliorati e respirava tranquilla nel sonno. Comunque non era ancora fuori pericolo. Tao Chi'en desiderava rimanere li per vegliarla, ma calcolò che mancava poco all'alba e presto sarebbe suonata la campana che lo richiamava al suo turno di lavoro. Stremato, si trascinò in coperta, si lasciò cadere bocconi sul tavolato e dormì come un bambino fino a quando l'amichevole pacca di un altro marinaio non lo svegliò per ricordargli il suo dovere. Immerse la testa in un secchio d'acqua di mare per darsi uno scossone e, ancora intontito, si diresse in cucina a bollire la zuppa di avena che costituiva la colazione di bordo. Tutti, compreso il sobrio capitano Katz, la mangiavano senza commentare, salvo i cileni che protestavano in coro nonostante disponessero della maggior quantità di viveri, visto che erano stati gli ultimi a imbarcarsi. Gli altri avevano invece esaurito le provviste di tabacco, alcol e ghiottonerie nei mesi di navigazione che avevano affrontato prima di toccare Valparaìso. Era corsa voce che alcuni cileni fossero aristocratici e che per questo motivo non sapessero lavarsi le mutande o far bollire l'acqua del tè. Chi viaggiava in prima classe portava con sé dei servi che pensava di utilizzare nelle miniere d'oro, perché l'idea di sporcarsi personalmente le mani non gli passava neanche per la testa. Altri preferivano pagare i marinai per essere serviti, dato che le donne si rifiutavano perentoriamente di farlo; potevano guadagnare dieci volte tanto ricevendoli per una decina di minuti nell'intimità della loro cabina e non c'era motivo di passare due ore a lavar loro la biancheria. L'equipaggio e il resto dei passeggeri ridevano di quei signorini viziati, ma mai di fronte a loro. I cileni avevano modi cortesi, sembravano timidi e sfoggiavano buone maniere e spirito cavalleresco, ma la minima scintilla era sufficiente per scatenare la superbia. Tao Chi'en cercava di star loro alla larga. Quegli uomini non celavano il loro disprezzo nei confronti suoi e di due viaggiatori neri imbarcatisi in Brasile, che pur avendo pagato un biglietto a prezzo intero, erano gli unici a non disporre di una cabina e a non essere autorizzati a dividere la tavola con gli altri. Tao preferiva le cinque umili cilene, con il loro solido senso pratico, il loro perenne buon umore e quella vocazione materna che affiorava nei momenti del bisogno.

Svolse il lavoro di quella giornata come un sonnambulo, con la mente fissa su Eliza, ma fino a sera non ebbe un momento libero per andare a trovarla. A metà mattina i marinai erano riusciti a pescare uno squalo enorme che aveva agonizzato in coperta dando terribili colpi di coda e a cui nessuno aveva osato avvicinarsi per finirlo a bastonate. A Tao Chi'en, in qualità di cuoco, era spettato scorticarlo, tagliarlo a pezzi, cucinare parte della carne e salarne il resto, mentre i marinai lavavano il sangue dalla coperta con spazzole e i passeggeri festeggiavano l'orrendo spettacolo con le ultime bottiglie di champagne, anticipando il banchetto serale. Conservò il cuore per la zuppa di Eliza e le pinne per essiccarle, perché valevano una fortuna sul mercato degli afrodisiaci. A mano a mano che passava le ore occupandosi dello squalo, Tao Chi'en si immaginava Eliza morta nella stiva. Provò un'intensa felicità quando poté scendere e rendersi conto che era ancora viva e che sembrava star meglio. L'emorragia era cessata, la brocca d'acqua era vuota e tutto lasciava pensare che avesse avuto momenti di lucidità nel corso di quella lunga giornata. Ringraziò brevemente Lin per il suo ausilio. La ragazza aprì gli occhi con difficoltà, aveva le labbra secche e il viso arrossato dalla febbre. La aiutò a sollevarsi e le fece bere un potente infuso di tangkuei, che ridà sangue. Quando fu sicuro che lo trattenesse nello stomaco le diede dei sorsi di latte fresco, che lei inghiottì avidamente. Rinvigorita, annunciò che aveva fame e chiese dell'altro latte. Le mucche che si trovavano a bordo, poco avvezze a navigare, ne producevano poco, erano ridotte pelle e ossa e si parlava già di ammazzarle. A Tao Chi'en l'idea di bere latte sembrava ripugnante, ma il suo amico Ebanizer Hobbs lo aveva informato della sua prerogativa di restituire il sangue perduto. Se Hobbs lo utilizzava nelle diete dei feriti gravi, doveva sortire lo stesso effetto in questo caso, pensò.

"Sto per morire, Tao?"

"Non ancora," sorrise lui, accarezzandole la testa.

"Quanto manca per arrivare in California?"

"Molto. Non pensarci. Adesso devi fare la pipì."

"No, ti prego," si schermi lei.

"Come no? Devi farla!"

"Davanti a te?"

 

"Sono uno zhong yi. Non puoi vergognarti con me. E poi ho già visto tutto quello che c'era da vedere del tuo corpo."

"Non riesco a muovermi, non ce la farò a sopportare il viaggio, Tao, preferisco morire..." singhiozzò Eliza appoggiandosi a lui per accomodarsi sulla bacinella.

"Coraggio, bambina! Lin dice che hai molto qi e che non sei arrivata così lontano per morire a mezza strada."

"Chi?"

"Non importa."

Quella notte Tao capì che non si sarebbe potuto occupare di lei da solo, aveva bisogno di aiuto. Il giorno dopo, non appena le donne uscirono dalla loro cabina e si installarono a poppa, come sempre facevano, per lavare la biancheria, intrecciarsi i capelli e cucire piume e perline sui loro vestiti da lavoro, fece segno ad Azucena Placeres che doveva parlarle. Durante il viaggio non avevano mai usato l'abbigliamento da meretrici, vestivano pesanti gonne scure e bluse senza fronzoli, calzavano ciabatte, nel pomeriggio si avvolgevano nelle loro mantelle, si pettinavano con due trecce sulla schiena e non si truccavano. Sembravano un gruppo di semplici contadine affaccendate nei lavori domestici. La cilena strizzò l'occhio con allegra complicità alle compagne e lo seguì in cucina. Tao Chi'en le consegnò un bel pezzo di cioccolato, sottratto alla riserva della tavola del capitano, e cercò di spiegarle il suo problema, ma siccome lei non capiva niente d'inglese, lui cominciò a perdere la pazienza. Azucena Placeres annusò il cioccolato e un sorriso infantile illuminò la sua tonda faccia da india. Prese la mano del cuoco e se la mise su un seno, indicandogli la cabina delle donne, libera a quell'ora, ma lui ritirò la mano, prese quella di lei e la guidò alla botola d'accesso alla stiva. Azucena, tra lo stupito e il curioso, si difese debolmente, ma lui non le diede modo di rifiutarsi, aprì la botola e la spinse per la scaletta, continuando a sorriderle per tranquillizzarla. Per alcuni istanti rimasero al buio, fino a quando Tao non trovò la lanterna appesa a una trave e riuscì ad accenderla. Azucena rideva: a quanto pareva, quel cinese stravagante aveva compreso i termini dell'accordo. Non l'aveva mai fatto con un asiatico ed era curiosa di sapere se la dotazione era uguale a quella degli altri uomini, ma il cuoco, che non accennava ad approfittare dell'intimità, la trascinò invece per un braccio facendosi strada in quel labirinto di involti. Temette che l'uomo fosse un pazzo e iniziò a dare degli strattoni per divincolarsi, ma Tao non la liberò e la obbligò a procedere fino a quando la lanterna illuminò il porcile in cui giaceva Eliza.

"Gesù, Giuseppe e Maria!" esclamò Azucena facendosi il segno della croce, terrorizzata, non appena la vide.

"Dille di aiutarci," chiese Tao Chi'en a Eliza in inglese, scuotendola affinché si riprendesse.

Eliza ci mise un buon quarto d'ora a tradurre balbettando le brevi istruzioni di Tao Chi'en, che aveva estratto la spilla con i turchesi dal sacchetto dei gioielli e la brandiva davanti agli occhi della tremante Azucena. L'accordo, le disse, consisteva nello scendere due volte al giorno a lavare Eliza e a darle da mangiare senza che nessuno se ne accorgesse. Se l'avesse rispettato, a San Francisco la spilla sarebbe stata sua, ma se avesse detto una sola parola a qualcuno, l'avrebbe scannata. L'uomo si era tolto il coltello dalla cintola e glielo stava passando davanti al naso, mentre con l'altra mano levava in alto la spilla, per far sì che il messaggio risultasse ben chiaro.

"Hai capito?"

"Di' a questo disgraziato di un cinese che ho capito e che può metter via il coltello; che, se si distrae un momento, senza volerlo mi manda all'altro mondo."

Per un lasso di tempo che sembrò interminabile, Eliza si dibatté nei deliri della febbre, assistita da Tao di notte e da Azucena Placeres di giorno. La donna approfittava delle prime ore della mattina e di quella della siesta, quando la maggior parte dei passeggeri sonnecchiava, per squagliarsela con circospezione in cucina, dove Tao le consegnava la chiave. Le prime volte scendeva nella stiva con una fifa maledetta, ma ben presto la sua buona indole naturale e la spilla ebbero la meglio sulla paura. Iniziava con lo strofinare Eliza con uno straccio insaponato per toglierle il sudore dell'agonia e poi la obbligava a mangiare le pappe di latte e avena e i brodi di gallina con riso irrobustiti con tangkuei che Tao Chi'en preparava, le somministrava le erbe che lui le prescriveva e di sua iniziativa le dava una tazza al giorno di infuso di borragine. Confidava ciecamente in quel metodo per ripulire il ventre da una gravidanza; borragine e un'immagine della Vergine del Carmine erano stati i primi oggetti che lei e le compagne d'avventura avevano collocato nei bauli da viaggio, perché senza quella salvaguardia le strade della California potevano rivelarsi dure da esplorare. L'ammalata vagò persa negli spazi della morte fino alla mattina in cui attraccarono nel porto di Guayaquil. Alla piccola borgata mezzo divorata dall'esuberante vegetazione equatoriale, approdavano poche barche e solo per commerciare frutti tropicali e caffè, ma il capitano Katz aveva promesso di consegnare delle lettere a una famiglia di missionari olandesi. Quella corrispondenza si trovava nelle sue mani da più di sei mesi e non era uomo capace di mancare alla parola data. La notte precedente, in preda a una calura simile a un rogo, Eliza aveva sudato la febbre fino all'ultima goccia, aveva sognato di scalare a piedi nudi l'incandescente pendio di un vulcano in eruzione e si era svegliata inzuppata ma lucida e con la fronte fresca. Tutti i passeggeri, donne comprese, e buona parte dell'equipaggio, scesero per un paio d'ore per sgranchirsi le gambe, fare un bagno nel fiume e rimpinzarsi di frutta, ma Tao Chi'en rimase a bordo per insegnare a Eliza ad accendere e a fumare la pipa che si trovava nel suo baule. Nutriva dubbi sulle cure da prescrivere alla ragazza e questa era una delle occasioni in cui avrebbe dato qualsiasi cosa per i consigli del suo saggio maestro. Comprendeva la necessità di mantenerla tranquilla per aiutarla a far passare il tempo nella prigione della stiva, ma Eliza aveva perso molto sangue e Tao temeva che la droga le guastasse quello rimasto. Prese la decisione esitando, dopo aver supplicato Lin di vegliare da vicino sul sonno di Eliza.

"Oppio. Ti farà dormire, così il tempo passerà più in fretta."

"Oppio! Ma fa impazzire!"

"Tu sei comunque pazza e quindi non hai molto da perdere," sorrise Tao.

"Vuoi uccidermi, vero?"

"Certo. Non ci sono riuscito quando stavi morendo dissanguata e adesso ci provo con l'oppio."

"Ah, Tao, ho paura..."

"Molto oppio fa male. Poco dà consolazione e io te ne darò assai poco."

La ragazza non sapeva quanto fosse molto o poco. Tao Chi'en le dava da bere le sue tisane - osso di drago e conchiglia d'ostrica - e le razionava l'oppio per regalarle qualche ora di misericordioso dormiveglia senza permetterle di perdersi completamente in un paradiso senza ritorno. Passò le settimane successive volando in altre galassie, lontano dalla tana insalubre dove il suo corpo giaceva prostrato, e si svegliava solo quando scendevano a darle da mangiare, a lavarla e a obbligarla a fare qualche passo nell'angusto labirinto della stiva. Non sentiva il tormento di pulci e pidocchi e nemmeno quell'odore nauseabondo che all'inizio le era risultato intollerabile, perché le droghe sconvolgevano il suo portentoso olfatto. Entrava e usciva dai sogni senza alcun controllo e senza riuscire a ricordarli, ma Tao Chi'en aveva ragione: il tempo passava più in fretta. Azucena Placeres non capiva perché Eliza viaggiasse in quelle condizioni. Nessuna di loro aveva pagato il biglietto, si erano imbarcate con un contratto con il capitano che avrebbe riscosso l'importo una volta arrivati a San Francisco.

"Se sono vere le voci che girano, in un giorno solo ti metti in tasca cinquecento dollari. I minatori pagano in oro puro. È da mesi che non vedono donne, sono disperati. Parla con il capitano e pagalo all'arrivo," insisteva nei momenti in cui Eliza si alzava.

"Non sono una di voi," replicava Eliza intontita nella dolce bruma delle droghe.

Alla fine, in un momento di lucidità, Azucena Placeres riuscì a far confessare a Eliza parte della sua storia. Immediatamente l'idea di aiutare una fuggitiva d'amore si impadronì della sua immaginazione e da quel momento curò l'ammalata con maggior dedizione. Ormai non si limitava a rispettare il contratto nutrendola e lavandola, ma rimaneva con lei anche solo per il gusto di vederla dormire. Se era sveglia, le raccontava la sua vita e le insegnava a recitare il rosario, attività che, a suo dire, era la migliore per far passare le ore senza pensare e, al contempo, guadagnarsi il cielo senza molti sforzi. Per una come lei, della sua professione, spiegò, era un ottimo sistema. Risparmiava scrupolosamente una parte delle entrate per comprare indulgenze alla Chiesa, per ridurre in questo modo i giorni di purgatorio da passare nell'altra vita, anche se, stando ai suoi calcoli, non sarebbero mai state sufficienti per tutti i suoi peccati. Trascorsero intere settimane senza che Eliza sapesse se era giorno o notte. Aveva la vaga sensazione che a volte ci fosse una presenza femminile al suo fianco, ma poi si addormentava e si svegliava confusa, senza poter dire se avesse sognato Azucena Placeres o se davvero esistesse una donna dalle trecce nere, il naso schiacciato e gli zigomi alti che sembrava una versione giovanile di Mama Fresia.

 

 

Il clima rinfrescò un poco quando si lasciarono alle spalle Panama, dove il capitano proibì di scendere a terra per paura dell'epidemia di febbre gialla e si limitò a mandare un paio di marinai con una scialuppa a cercare acqua dolce, dato che la poca rimasta era diventata melmosa. Oltrepassarono il Messico e quando l'Emilia stava navigando nelle acque della California entrarono nella stagione invernale. Il caldo soffocante della prima parte del viaggio si trasformò in freddo e umidità; dalle valigie fecero la loro comparsa cappelli di pelo, stivali, guanti e sonane di lana. Di tanto in tanto il brigantino incrociava altre navi che salutava da lontano senza rallentare il ritmo di marcia. A ogni funzione religiosa, il capitano ringraziava per i venti favorevoli, perché sapeva di barche che avevano deviato fino alle coste delle Hawaii in cerca di propulsione per le loro vele. Ai delfini giocherelloni si aggiunsero grandi e solenni balene che li accompagnarono per lunghi tratti. All'imbrunire, quando l'acqua si tingeva di rosso per i riflessi del tramonto, gli immensi cetacei facevano l'amore in un fragore di spuma dorata, chiamandosi l'un l'altro con profondi bramiti sottomarini. E a volte, nel silenzio della notte, si avvicinavano tanto all'imbarcazione che si poteva sentire nitidamente il rumore cupo e misterioso della loro presenza. Le provviste fresche erano terminate e le razioni secche scarseggiavano; salvo giocare a carte e pescare, di svaghi non ce n'erano. I viaggiatori passavano ore a discutere i codicilli delle società costituite per l'avventura, alcune disciplinate da un rigido regolamento militare e provviste perfino di divise, altre più flessibili. Tutte si basavano fondamentalmente su un accordo allo scopo di finanziare il viaggio e le attrezzature, lavorare nelle miniere, trasportare l'oro e poi ripartirsi equamente i guadagni. Nessuno sapeva nulla dei terreni e delle distanze. Una delle società stabili che ogni sera i membri dovessero far ritorno all'imbarcazione, dove pensavano di vivere per mesi, e depositare l'oro di quel giorno in una cassaforte. Il capitano Katz spiegò loro che non poteva affittare l'Emilia come fosse un hotel perché pensava di tornare in Europa il prima possibile e, comunque, le miniere si trovavano a centinaia di miglia dal porto, ma venne ignorato. Erano in viaggio da cinquantadue settimane, la monotonia dell'acqua infinita alterava i nervi e al minimo pretesto scoppiavano risse. Quando un passeggero cileno fu sul punto di scaricare il suo schioppo su un marinaio yankee al quale Azucena Placeres faceva troppe moine, il capitano Vincent Katz confiscò le armi, rasoi compresi, con la promessa che le avrebbe restituite in vista di San Francisco. L'unico autorizzato a maneggiare coltelli era il cuoco, cui spettava l'ingrato compito di ammazzare a uno a uno gli animali domestici. Quando anche l'ultima mucca andò a finire in pentola, Tao Chi'en improvvisò un'elaborata cerimonia per ottenere il perdono degli animali sacrificati e ripulirsi del sangue versato, poi disinfettò il coltello, passandolo diverse volte sulla fiamma di una torcia.

Non appena la nave entrò nelle acque della California, Tao Chi'en sospese gradualmente le erbe tranquillanti e l'oppio a Eliza, si adoperò per nutrirla e la obbligò a fare esercizi affinché potesse uscire dalla prigione con le sue gambe. Azucena Placeres la insaponava con pazienza e trovò perfino la maniera di lavarle i capelli con tazzine d'acqua, mentre le parlava della sua triste vita di meretrice e dell'allegra illusione di arricchirsi in California per poter tornare in Cile trasformata in una signora, con sei bauli di vestiti di lusso e un dente d'oro. Tao Chi'en ancora non sapeva bene come far sbarcare Eliza, ma se era riuscito a farla salire a bordo in un sacco, sicuramente poteva utilizzare lo stesso sistema per farla scendere. E una volta a terra, la ragazza non sarebbe più stata sotto la sua responsabilità. L'idea di separarsi definitivamente da lei gli procurava un misto di incredibile sollievo e di incomprensibile ansia.

Quando mancavano poche leghe per arrivare a destinazione, l'Emilia prese a bordeggiare la costa nord della California. Secondo Azucena Placeres era talmente simile a quella cilena che sicuramente la barca non aveva fatto che girare in tondo come le aragoste e ora si trovavano di nuovo a Valparaìso. Migliaia di lupi marini e di foche si staccavano dalle rocce e si lasciavano cadere pesantemente in acqua, in mezzo all'insopportabile gazzarra di gabbiani e pellicani. Non si vedeva anima viva sugli scogli, né traccia di case, e nemmeno l'ombra degli indiani che, si diceva, abitavano da secoli quelle regioni incantate. Alla fine si avvicinarono ai faraglioni che annunciavano la prossimità della Porta dell'Oro, la famosa Golden Gate, la soglia della baia di San Francisco. Una spessa bruma avvolse l'imbarcazione come un mantello, non si vedeva a mezzo metro di distanza e il capitano, per paura di urtare gli scogli, ordinò di rallentare la marcia e di gettare l'ancora. Erano molto vicini e l'impazienza dei passeggeri si era trasformata in esagitazione. Parlavano tutti contemporaneamente, mentre si preparavano a calpestare la terraferma e a dirigersi di corsa ai giacimenti in cerca del tesoro Negli ultimi giorni la maggior parte delle società di sfruttamento delle miniere si era sciolta, il tedio della navigazione aveva creato inimicizie tra i soci e ognuno ora pensava solo per sé, sprofondando in sogni di incalcolabile ricchezza. Non mancò chi dichiarò il proprio amore alle prostitute e chi chiese al capitano di sposarli prima dello sbarco, perché era girata voce che il bene più scarso in quelle terre barbare erano proprio le donne. Una delle peruviane accettò la proposta di un francese che era in mare da talmente tanto tempo da non ricordare nemmeno il proprio nome, ma il capitano Katz si rifiutò di celebrare le nozze quando venne a sapere che l'uomo aveva una moglie e quattro figli ad Avignone. Le altre rifiutarono in modo assoluto i pretendenti: avevano intrapreso un viaggio così penoso per essere libere e ricche, certamente non per diventare le serve senza stipendio del primo disgraziato che si offrisse in sposo.

L'entusiasmo degli uomini andò placandosi a mano a mano che passavano le ore immobili, sommersi nella lattiginosa irrealtà della foschia. Il secondo giorno finalmente il cielo si liberò all'improvviso, fu possibile disancorare e intraprendere a vele spiegate l'ultima tappa del lungo viaggio. Passeggeri ed equipaggio salirono in coperta per ammirare la stretta imboccatura della Golden Gate, sei miglia di navigazione sospinta da un vento d'aprile sotto un cielo trasparente. Su entrambi i lati della costa si levavano colline coronate da boschi, incise come ferite dall'eterno lavorio  delle onde, alle spalle rimaneva l'Oceano Pacifico e di fronte si stendeva la splendida baia come un lago di acqua argentata. Una salva di applausi salutò la fine dell'ardua traversata e l'inizio dell'avventura dell'oro per quegli uomini e quelle donne, come anche per i venti marinai che decisero in quel preciso istante di abbandonare la nave al suo destino e di lanciarsi anch'essi verso le miniere. Gli unici a rimanere impassibili furono il capitano olandese Vincent Katz, che rimase al suo posto nei pressi del timone senza rivelare il minimo turbamento perché l'oro non lo commuoveva e l'unico suo desiderio era tornare ad Amsterdam in tempo per trascorrere il Natale con la sua famiglia, ed Eliza Sommers, che dal ventre del veliero non seppe che erano arrivati se non parecchie ore dopo.

La prima cosa che sconcertò Tao Chi'en, entrando nella baia, fu il bosco di alberi maestri. Era impossibile calcolare quanti fossero, ma contò più di un centinaio di imbarcazioni abbandonate in un disordine da fine battaglia. Qualsiasi lavoratore a giornata guadagnava in un giorno più di un marinaio in un mese di navigazione; questi ultimi non solo disertavano per l'oro, ma anche perché tentavano di arricchirsi trasportando sacchi, facendo il pane o lavorando il ferro per le attrezzature. Alcune imbarcazioni vuote venivano affittate come depositi o alberghi improvvisati, mentre altre erano abbandonate a se stesse e diventavano depositi d'alghe marine e nidi di gabbiani. Un secondo sguardo rivelò a Tao Chi'en la città aperta come un ventaglio sui pendii delle colline, un viluppo di tende da campo, di capanne di assi e cartone e qualche edificio, semplice, ma di buona fattura, i primi di quell'insediamento appena sorto. Dopo aver gettato l'ancora accolsero la prima scialuppa e non era l'imbarcazione della capitaneria di porto, come si erano immaginati, ma quella di un cileno desideroso di dare il benvenuto ai suoi compatrioti e di ricevere la posta. Si trattava di Feliciano Rodriguez de Santa Cruz, che aveva cambiato il suo nome altisonante in Felix Cross per far si che gli yankee potessero pronunciarlo. Benché molti dei viaggiatori fossero suoi amici personali, nessuno lo riconobbe, perché del signorino con finanziera e baffi lucidi di brillantina che avevano visto l'ultima volta a Valparaìso non rimaneva nulla; ai loro occhi apparve un cavernicolo irsuto, con la pelle abbronzata di un indiano, abbigliamento da montanaro, stivaloni russi fino a mezza coscia e due pistoloni in vita, accompagnato da un nero dall'aspetto altrettanto selvaggio, anch'egli armato come un bandito. Quest'ultimo era uno schiavo fuggiasco che, una volta entrato in California, era diventato un uomo libero, ma non essendo stato in grado di sopportare l'estrema frugalità della vita di miniera, aveva preferito guadagnarsi da vivere come gorilla. Quando Feliciano si fece riconoscere fu accolto con grida d'entusiasmo e praticamente portato in trionfo fino al ponte di prima classe, dove i passeggeri in massa gli chiesero notizie. La loro unica curiosità era sapere se il minerale abbondava come si diceva, domanda alla quale replicò che ce n'era anche di più e, estraendo dalla sua borsa una sostanza gialla dalla forma di cacca schiacciata, annunciò che si trattava di una pepita da mezzo chilo che era disposto a barattare con tutto il liquore di bordo; ma l'affare non si concluse perché rimanevano solamente tre bottiglie, il resto era stato consumato durante il viaggio. La pepita, disse, era stata trovata dai valorosi minatori cileni che lavoravano per lui sulle rive dell'American River. Dopo aver brindato con l'ultima riserva d'alcol e aver ricevuto le lettere della moglie, il cileno passò a informarli su come sopravvivere in quella regione.

"Fino a qualche mese fa vigeva un codice d'onore e perfino i farabutti che lavoravano a giornata si comportavano con onestà.

Si poteva lasciare l'oro in una tenda senza sorveglianza e nessuno lo toccava, ma adesso è tutto cambiato. Regna la legge della giungla e l'unico codice è quello dell'avidità. Non separatevi dalle armi e andate in giro a coppie o a gruppi, questa è terra di fuorilegge," spiegò.

Diverse scialuppe avevano circondato la nave; gli uomini che si erano avvicinati gridavano proponendo gli affari più disparati, decisi com'erano a comprare qualsiasi articolo che a terra vendevano poi a cinque volte il prezzo pagato. Ben presto gli incauti viaggiatori avrebbero scoperto l'arte della speculazione. Nel pomeriggio apparvero il capitano del porto accompagnato da un agente della dogana e dietro a loro due scialuppe con diversi messicani e un paio di cinesi che si offrirono per trasportare il carico della nave sul molo. Chiedevano un patrimonio, ma non c'era alternativa. Il capitano del porto non dimostrò nessuna intenzione di esaminare i passaporti o di controllare l'identità dei passeggeri.

"Documenti? Non se ne parla! Siete arrivati nel paradiso della libertà. Qui non esiste la carta bollata," annunciò.

Le donne, invece, lo interessarono molto. Si vantava di essere il primo ad assaggiare a una a una tutte quelle che sbarcavano a San Francisco, anche se non erano tante come avrebbe desiderato. Raccontò che le prime ad apparire in città, parecchi mesi prima, furono ricevute da una moltitudine di uomini euforici che fecero la fila per ore pur di non perdere il turno e che pagarono a prezzo d'oro, in polvere, in pepite, in monete e persino in lingotti. Si trattava di due intrepide ragazze yankee arrivate da Boston al Pacifico, passando per l'istmo di Panama. Aggiudicarono i loro servigi al miglior offerente e guadagnarono in un giorno le normali entrate di un anno. Da allora ne erano arrivate più di cinquecento, e fatta eccezione per qualche nordamericana o francese, erano per lo più messicane, cilene, peruviane, ma il loro numero era comunque insignificante rispetto alla crescente invasione di uomini giovani e soli.

Azucena Placeres non ebbe il piacere di sentire queste notizie perché Tao Chi'en l'aveva condotta nella stiva non appena era venuto a sapere della presenza dell'agente della dogana. Non avrebbe potuto far scendere la ragazza in un sacco sulle spalle di uno scaricatore come era salita, perché i colli sarebbero stati sicuramente ispezionati. Eliza rimase sorpresa quando li vide, perché erano entrambi irriconoscibili: lui sfoggiava camicia e calzoni puliti, la sua treccia serrata brillava come se l'avesse oliata e si era accuratamente rasato, e dal canto suo Azucena Placeres aveva cambiato i suoi panni da contadina per una tenuta da battaglia: portava un vestito blu con piume intorno alla scollatura, un'acconciatura alta coronata da un cappello e labbra e guance color carminio.

"Il viaggio è finito e sei ancora viva, bambina," le annunciò allegramente.

Pensava di prestare a Eliza uno dei suoi numerosi vestiti e di farla sbarcare come se fosse una in più del gruppo, idea che come le spiegò non aveva niente di strano visto che sicuramente quella sarebbe stata la sua professione in terraferma.

"Sono venuta per sposarmi con il mio fidanzato," replicò Eliza per la centesima volta.

"In questi casi non c'è fidanzato che tenga. Se per mangiare bisogna venderla, la si vende. In una situazione del genere, non puoi stare a pignoleggiare sui dettagli, bambina."

Tao Chi'en le interruppe. Se per due mesi le donne a bordo erano state sette, non ne potevano scendere otto, fu il suo ragionamento. Aveva osservato bene il gruppo di messicani e cinesi che era salito a bordo per scaricare e che aspettava in coperta gli ordini del capitano e dell'agente della dogana. Fece segno ad Azucena di pettinare i lunghi capelli di Eliza in una coda come la sua, mentre lui andava a prendere un suo cambio d'abiti. Vestirono la ragazza con dei pantaloni, una camicia stretta in vita da una corda e un cappello di paglia a ombrello. In quei due mesi in cui aveva sguazzato nelle secche dell'inferno, Eliza aveva perso peso ed era macilenta e pallida come carta di riso. Con i vestiti di Tao Chi'en, così grandi per lei, sembrava un bambino cinese denutrito e triste. Azucena Placeres la prese tra le sue robuste braccia da lavandaia e le stampò un bacio emozionato sulla fronte. Le si era affezionata e in fondo la rallegrava l'idea di un fidanzato che la aspettava, perché non riusciva a immaginarla sottoposta alle brutalità della vita che sopportava lei.

"Sembri un passerotto," disse ridendo Azucena Placeres.

"E se mi scoprono?"

"Qual è il peggio che ti possa capitare? Che Katz ti obblighi a pagare il biglietto. Lo puoi pagare con i gioielli; non te li sei portati dietro apposta?" rispose la donna.

"Nessuno deve sapere che sei qui. Solo così il capitano Sommers non ti cercherà in California," disse Tao Chi'en.

"Se mi troverà, mi riporterà in Cile."

"E per quale motivo? Sei comunque disonorata. Sono cose che i ricchi non sopportano. La tua famiglia dovrebbe essere felice della tua fuga; così non dovrà sbatterti per strada."

"Solo questo? In Cina ti ammazzerebbero per quello che hai fatto."

"Senti un po', cinese, non siamo nel tuo paese e quindi non spaventare la ragazzina. Puoi uscire tranquillamente, Eliza. Nessuno baderà a te. Saranno tutti distratti a guardare me," la rassicurò Azucena Placeres, congedandosi in un turbine di piume blu, con la spilla di turchesi appuntata sulla scollatura.

Le cose andarono effettivamente così. Le cinque cilene e le due peruviane, nelle loro più esuberanti tenute da conquista, furono lo spettacolo del giorno. Scesero nelle scialuppe su scalette di corda, precedute da sette fortunati marinai che si erano contesi il privilegio di sostenere sulla loro testa le natiche femminili, in mezzo al coro di fischi e di applausi delle centinaia di persone ammucchiate nel porto per riceverle. Nessuno prestò la minima attenzione ai messicani e ai cinesi che, come una fila di formiche, si passavano i bagagli di mano in mano. Eliza prese posto in una delle ultime scialuppe insieme a Tao Chi'en, che annunciò ai compatrioti che il ragazzino era sordomuto e un po' imbecille e che quindi era inutile cercare di comunicare con lui.